Lui dormiva con un piede fuori, estate e inverno, impavido ai mostri rosicchia-alluci.
Lei sempre coperta fino al mento, che fuori ci fosse il sole, o tirasse vento.
Dovrebbero inventare una coperta a due temperature, si dicevano. E quando poi l’inventarono davvero, loro non la comprarono mai, offesi e scippati di quell’idea amorosa.
Lui dormiva a pancia sopra, russava lieve.
Lei su un fianco, rannicchiata, si faceva piccola, come una foglio di carta appallottolato.
Talvolta lui si girava su un fianco, e allora lei rinculava, come certe palle da biliardo colpite con maestria, e faceva buca, precisa nell’incavo della sua pancia. Lui l’avvolgeva, braccia lunghe e lunghe gambe, e si riaddormentavano così, aggrovigliati, a non sapere dove finisse il corpo di uno e iniziasse quello dell’altra.
Lui mangiava lunghi capelli, se li trovava ovunque, in bocca, negli occhi, attorcigliati sulle dita.
Lei sincronizzava il respiro al suo, ma solo per poco, o finiva in apnea, troppo lunghi i suoi fiati per stargli dietro.
Come quando camminavano a fianco. Lui a destra, a sinistra lei.
Lunghe falcate quelle di lui, con quelle zampe da trampoliere fatte apposta per lunghi cammini.
Lei accelerava il passo, faceva un saltello per raggiungerlo, un passo di danza, al tempo scandito dal ticchettio sul selciato.
Passi ponderati quelli di lei, fatti apposta per cammini sicuri.
Erano passi l’uno dell’altra.
Lei era fili di perle, alle orecchie e alle caviglie.
Lui fini bracciali di cuoio ai polsi, medagliette al collo.
Lui a volte si coricava presto. Allora lei si infilava piano sotto le coperte, e si tuffava a pancia in giù, abbracciando il cuscino.
Lui allungava una mano, e le arpionava una natica, come un naufrago a un relitto nel mare, quasi a non voler annegare del tutto nel sonno, da solo.
Lei si girava, dopo un po’, e lui le rotolava addosso con un grugnito; la testa affondata nella clavicola, i capelli arruffati, le labbra di lei incollate alla fronte.
Quel letto di battaglia li aveva sorpresi amici e poi amanti. Talvolta amorosi, talvolta litigiosi. E allora non bastavano quelle lunghe lenzuola annodate, via di fuga per due galeotti in gabbia.
Lei si portava sul divano in salotto, un bicchiere d’acqua in mano, le ginocchia sotto il mento. L’orgoglio le impediva di buttarlo fuori dal letto, era suo quell’angolo di decompressione.
Restasse a lui il grande letto vuoto, il cuscino con il lieve odore di lei, la forma concava appena accennata nel materasso.
Lui se la trovava a dormirgli addosso, quando filtrava dalla finestra la luce lattiginosa dell’alba, che si era presa già tutto il cielo, per restituirlo vestito di bianco, come una sposa estiva.
Lui era l’amore del mattino, cauto e assonnato, che rubava tempo alla strada che correva sotto i piedi come un tappeto sfilato di corsa, per non arrivare in ritardo al lavoro.
Lei era il caffè il sul fuoco, le tovagliette all’americana preparate la sera prima.
Lei era terra, lui aria e vento.
Lui era i piccoli gesti, la lentezza degli inizi, le piccole certezze quotidiane, le sciocche esclusive di due innamorati.
Lei indossava un cappello di lana, da cui sfuggiva un ciuffo ribelle che lui come vento le scostava dal viso un attimo prima di baciarla.
Lui era scarpe sbagliate su terreni impervi, mocassini sporchi di terra.
Lei era fiume in piena, lui lago placido e accogliente.
Lei non era per sempre. Lui non era per i mai.
Lei era lupa, e lui leone.
Lei era un velo a celare il viso, lui un avvolgente maglione.
Lei era tramonto d’estate, lui alba in inverno.
Lei era un nome scritto nell’angolo del cielo.
Lui era un nome scritto nel ferro di un anello.
Lei era il verso di una canzone un po’ nostalgica, lui una formula magica che ovunque protegge.